Di fronte a un Oceano di Saggezza: il nostro incontro con il Dalai Lama
Il viaggio nelle parole di Beatrice – Parte I
A fine gennaio 2025 ricevo un messaggio da Enrica Lobina, la Direttrice Generale di Wisedāna Foundation: «Ti devo parlare, possiamo organizzare una videocall nel pomeriggio?». Immediatamente penso che ci sia qualche notizia spiacevole o qualche problema da risolvere: è deformazione professionale. Quando finalmente ci ritroviamo l’una davanti all’altra attraverso lo schermo, la vedo visibilmente emozionata: «Spero tu sia seduta», mi dice. Ma sorride, come una persona che sa di nascondere, nel pugno chiuso dietro la schiena, una sorpresa incredibile per chi la riceverà. «A febbraio andremo a Bylakuppe, nel sud dell’India, per una visita a Sua Santità il Dalai Lama. Vorrei che venissi anche tu». Mi ripeto nella mente queste parole, è come se esplodessero luci intorno a me, e mi appare chiaro il viso di Tenzin Gyatso (questo è il nome proprio di Sua Santità), i contorni nitidi.
È come se la mia mente, nella frazione di pochi secondi, aprisse contemporaneamente tutti i libri che ho letto su di lui, sulla questione tibetana, sul popolo tibetano, sulle montagne tibetane. Ripercorro velocemente le infinite notti e gli infiniti giorni passati a studiare la storia del Tibet, la filosofia, la religione, la politica, la lingua di questa regione. Nel 2010 infatti mi sono trasferita a Venezia per studiare Lingue, Culture e Filosofie dell’India e del Tibet. Da allora, il mio interesse e la mia passione per la causa tibetana sono cresciuti costantemente, fino a portarmi a intraprendere un viaggio nelle aree più remote della Cina durante la mia ricerca di tesi magistrale in Scienze Politiche. L’obiettivo era documentare e analizzare i tentativi di assimilazione etnica ai danni delle minoranze tibetana e uigura, con un focus particolare sulle regioni del Tibet e dello Xinjiang.
Si capisce dunque che la causa tibetana è per me davvero importante, e per questo la notizia del viaggio mi colpisce tanto. Enrica ha aperto il pugno che teneva nascosto dietro la schiena e la sorpresa che mi offre è quasi troppo grande. Mentre mi copro il viso con le mani dico solo: «Sarei onorata». Si parte tra due settimane.
Il Dalai Lama è la massima autorità spirituale del buddhismo tibetano e una figura di rilievo a livello mondiale per la sua incessante lotta a favore non solo del popolo tibetano ma, virtualmente, di ogni essere vivente. Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, nacque il 6 luglio 1935 nel villaggio di Taktser, nell’Amdo, una regione nord-orientale del Tibet. All’età di due anni fu riconosciuto come la reincarnazione del suo predecessore, il XIII Dalai Lama, e intraprese un intenso percorso di formazione monastica.
Nel 1950, a soli 15 anni, dovette assumere la guida politica del Tibet in un periodo di crescente tensione con la Repubblica Popolare Cinese, che ne aveva iniziato l’occupazione. Le tensioni culminarono nel marzo del 1959 con una sollevazione popolare a Lhasa, la capitale tibetana, che venne repressa duramente dalle forze militari cinesi. Temendo per la propria vita e volendo garantire una guida al suo popolo, il Dalai Lama decise di fuggire in esilio. Il 17 marzo 1959, travestito da soldato, lasciò quindi il Palazzo di Norbulingka e, dopo un pericolosissimo viaggio attraverso l’Himalaya, raggiunse l’India, il cui Governo scrisse le migliori e più valorose pagine della storia del Paese offrendo asilo politico a Sua Santità. Da allora, egli risiede a Dharamsala, che si trova nella regione settentrionale indiana dell’Himachal Pradesh ed è sede dell’Amministrazione Centrale Tibetana in esilio. Qui, da oltre sessant’anni vengono accolti i rifugiati tibetani che continuano a scappare dal proprio Paese natio e affrontano il difficile viaggio attraverso le montagne himalayane.
Mi gira la testa quando penso che incontrerò una figura di questo calibro. Arriva metà febbraio: si parte.
Foto scattate dall’auto che ci porta dall’aeroporto di Bangalore a Bylakuppe
Dal mio diario di viaggio:
Arriviamo a Bangalore stanchi e con quella classica sensazione del jet lag che in India si declina in una maniera speciale, tutta sua. Non è solo la stanchezza del non aver dormito, dell’esser stata in piedi per ore in aeroporto, o di esser stata sballottata da una parte all’altra in macchina, sulle strade sterrate che collegano Bangalore a Bylakuppe. È anche l’aria che si respira, calda, con una propria identità: non trasporta un vero e proprio odore, quanto più dei ricordi. Dopo tanti anni in India, è diventato familiare anche questo senso di cripticità e, tra stanchezza e fatica, ci si abbandona felicemente alle 4 ore di macchina che ci porteranno finalmente a Bylakuppe. Il solo pensiero di quello che potrei trovare lì basta ad accelerare i pensieri e il cuore. Un respiro profondo.
Bylakuppe, rovente cittadina situata nello Stato indiano del Karnataka, ospita una delle più grandi e antiche comunità di rifugiati tibetani in India. Nel 1960 infatti il governo del Karnataka concesse circa 3.000 acri di terra per accogliere i profughi tibetani che fuggivano dalla repressione cinese. Questa iniziativa portò alla creazione in questa zona dell’insediamento di Lugsum Samdupling nel 1961, seguito da quello di Dickyi Larsoe nel 1969. Oggi, Bylakuppe ospita una popolazione stimata di 70.000 persone tibetane e rappresenta un punto di riferimento vitale per la preservazione della cultura e della religione di questo popolo in esilio.
Bylakuppe è India, ma è anche Tibet: tra la ricca vegetazione e i rumori dei camion, sorgono numerosi monasteri di rilevanza spirituale ma anche storica, di resistenza. Il Monastero di Namdroling, noto anche come il Tempio d’Oro del Sud, è il più grande centro di insegnamento della scuola Nyingmapa del buddhismo tibetano: ospita oltre 5.000 monaci e monache. Il Monastero di Sera, modellato sull’omonima università monastica in Tibet, appartiene alla scuola Gelugpa ed è lì che la filosofia prende vita attraverso lo studio e il dibattito. Altri monasteri di rilievo includono il Monastero di Sakya e il Monastero di Tashi Lhunpo, fondato nel 1972.
Noi invece stiamo andando al Gyudmed.
Foto scattate al nostro arrivo al Monastero Gyudmed, dove siamo accolti dai monaci che ci offrono kata bianche secondo la tradizione dell’ospitalità tibetana
Il Monastero di Gyudmed, situato nell’insediamento tibetano di Hunsur, vicino a Bylakuppe, è un’importante istituzione monastica appartenente alla tradizione Gelugpa. Fondato dai monaci in esilio per preservare gli insegnamenti tantrici del buddhismo tibetano, il monastero svolge un ruolo cruciale nella formazione spirituale e accademica dei monaci.
Dal mio diario di viaggio:
Arrivati al Gyudmed. In macchina Lobsang Phurbu, che ci accompagna, ci spiega che verremo alloggiati nell’edificio dove solitamente i monaci si ritirano in meditazione. Mentre mi accompagna per le scale e mi porge le chiavi e un classico lucchetto indiano che pesa come un sasso, mi sorride “Fino a ieri qualcuno meditava nella tua stanza, ora è piena di energia positiva”. Percepisco il privilegio e la fortuna, preferirei quasi dormire fuori da una stanza impregnata di pensieri puliti, non mi sento degna. Lobsang apre la porta e mi invita ad entrare. La stanza è quadrata, sulla destra un letto semplice con un materasso sottile, stile indiano, subito sotto una finestra che si apre sulla foresta, piena di pavoni, scimmie, dicono anche elefanti, tigri e orsi. Sul muro una thangka che rappresenta il Buddha Sakyamuni, un piccolo tavolo e una seduta per la meditazione. L’altra porta si affaccia sul balcone, sovrasta la vegetazione. Posso vedere i monaci che circumnavigano la gigantesca struttura del Gyudmed. Ho le lacrime agli occhi.
Il Monastero Tantrico Gyudmed: luogo magico, misterioso. A prima vista, da lontano, può sembrare uno dei tanti monasteri nati in esilio dopo l’invasione cinese del Tibet. Ma basta varcarne la soglia per avvertire subito che si è entrati in un universo altro, dove ogni gesto, ogni parola, ogni suono hanno un ritmo diverso, scolpito nella pietra del tempo.
Il Gyudmed è la rinascita, in terra d’India, di un’istituzione fondata nel 1433 in Tibet da Jetsun Sherab Senge, un grande discepolo di Je Tsongkhapa, il riformatore del buddhismo tibetano e fondatore della scuola Gelugpa. Dopo la distruzione del monastero originario, i maestri superstiti hanno ricostruito a Hunsur — vicino a Bylakuppe — non solo una struttura fisica, ma un’intera eredità spirituale, salvandola dall’oblio.
Qui si coltiva e si tramanda quella parte esoterica del buddhismo, il Vajrayāna, che viene insegnata solo a chi ha ricevuto un’adeguata preparazione filosofica e interiore. Vi risiedono centinaia di monaci, la cui attività non si limita allo studio e all’enunciazione dei sutra: quotidianamente si immergono in un addestramento mentale e rituale che comprende visualizzazioni complesse, costruzione di mandala, meditazioni sui corpi sottili e recitazioni potenti cariche di vibrazioni profonde.
Il centro dello studio è il Guhyasamaja Tantra, uno dei testi più profondi e sofisticati della tradizione tantrica. Nella scuola Gelugpa è considerato il fondamento per comprendere il cammino verso l’Illuminazione attraverso la trasformazione dell’esperienza ordinaria. Oltre a questo, i monaci studiano gli altri testi fondamentali, ma anche logica e dialettica, filosofia Madhyamaka, mente e cognizione. Il rigore intellettuale è pari all’impegno meditativo: non si separa la mente dal cuore, né il ragionamento dalla devozione.
E tutt’intorno, il monastero pulsa di attività: giovani novizi imparano il tibetano classico, altri traducono testi in inglese, alcuni monaci si dedicano all’arte dei mandala di sabbia, altri ancora si allenano nella recitazione perfetta dei testi rituali. Le loro voci paiono provenire dalle profondità della Terra e placano ogni pensiero anche in noi, visitatori chiusi fuori da questo mistero. Nulla è lasciato all’improvvisazione. Ogni cerimonia, ogni studio, ogni meditazione è parte di una catena ininterrotta di trasmissione spirituale, che dal Tibet premoderno giunge intatto fino a oggi. Il Gyudmed potrebbe essere una delle Città Invisibili di Calvino, costruita intorno a un sapere antico che non si può spiegare tutto a parole: bisogna entrarci, restarci, ascoltarlo. È una dei pochi luoghi rimasti in cui la forma della conoscenza non prevede la separazione tra mente e realtà, e dove la via verso l’Illuminazione si percorre passo dopo passo, nel silenzio di un monastero in esilio che ha saputo diventare dimora.
Penso a tutto questo durante le poche giornate che separano il nostro arrivo dall’incontro con Sua Santità. Le ore scorrono lente, scandite dal lavoro al computer che non possiamo abbandonare e dal ritmo delle preghiere dei monaci. C’è una calma sorprendente, anche se dentro sappiamo bene che ci stiamo avvicinando al momento più importante del nostro viaggio qui. L’atmosfera comunque è vibrante: tutti sono emozionati, noi compresi, e si respira un’aria di solennità. L’incontro con il Dalai Lama ormai è prossimo, manca un giorno solo, e io ancora fatico a credere che la vita mi abbia davvero regalato il dono di questa esperienza.
…
Il seguito del racconto di Beatrice verrà pubblicato a maggio 2025: iscriviti alla newsletter in fondo a questa pagina per non perderlo
Testo a cura di Beatrice Marzi
Revisione editoriale a cura di Marta Turchetta