Trasformare il conflitto in opportunità

Quante volte ci siamo trovati di fronte a un conflitto, grande o piccolo, e ci siamo chiesti: è davvero necessario? È utile? Posso affrontarlo in modo positivo, senza che diventi un ostacolo insormontabile? Il conflitto è una parte inevitabile delle nostre relazioni, un momento in cui le nostre esigenze e visioni entrano in contrasto con quelle di altre persone. Tendiamo a vederlo come un evento negativo, ma deve davvero essere così?

Per aiutarci a rispondere a queste domande, abbiamo intervistato Martina Righetti, fondatrice di Parliamoci di Brutto e professionista che ha fatto del conflitto la sua specializzazione. Dopo anni di lavoro come avvocata d’impresa e consulente legale, Martina ha scelto di cambiare strada per dedicarsi alla risoluzione pacifica dei conflitti come conflict coach e mediatrice. Grazie al suo approccio pratico e umano, ha lavorato con molte persone e team, aiutandoli a navigare i conflitti in modo costruttivo. In questa intervista, la sua esperienza e il suo punto di vista ci aiutano a vedere il conflitto da una prospettiva nuova, meno spaventosa e più interessante.

 

Partiamo dalle basi: è possibile non entrare mai in conflitto?

Il conflitto è un fenomeno umano, naturale e inevitabile. Spesso lo paragono al respiro nella fisiologia del nostro corpo: semplicemente fa parte della nostra esperienza quotidiana. Nelle relazioni, il conflitto si crea quando un bisogno e un altro bisogno entrano in contrasto, e questo accade continuamente, e specialmente nei momenti di maggiore intensità emotiva e di cambiamenti significativi.
Fermiamoci a pensare alla nostra giornata tipo: quanti di questi contrasti viviamo? Potremmo dire che il conflitto è una dinamica fisiologica nelle nostre relazioni e che dunque non abbia senso sforzarsi di evitarla a ogni costo.

È auspicabile non entrare mai in conflitto?

Come abbiamo appena detto, non è umanamente possibile evitare il conflitto. Aggiungerei che non solo non è fattibile ma non c’è nemmeno da sperare di evitare totalmente il conflitto: come ogni fenomeno naturale, accoglierlo e gestirlo con consapevolezza è la strategia migliore per noi e per gli altri.
Tuttavia, c’è una parte di noi, alimentata dalla nostra cultura e da un certo tipo di educazione, che crede che evitare il conflitto sia la scelta di maggiore salvaguardia per l’individuo e per le sue relazioni. Alla base di questo evitamento c’è di solito la paura di non saper gestire la conflittualità in modo efficace e costruttivo, se non addirittura una narrazione catastrofica del conflitto come fenomeno distruttivo.
Faccio un esempio alla portata di tutti e tutte: non aiuta che il concetto di conflitto sia spesso associato alla parola “armato”, per cui parlare di conflitto rievoca il campo semantico e linguistico della guerra e della violenza. Un tema, quest’ultimo, che ci fa sentire minacciati in generale e su cui siamo particolarmente sensibili in questi ultimi anni di terribili tragedie a livello internazionale.

Esistono conflitti visibili e invisibili?

Io preferisco parlare di conflitti emersi e sommersi: i primi sono quelli evidenti, conclamati e riconosciuti apertamente (almeno da alcune delle parti interessate), mentre i secondi sono quelli in cui la presenza di un contrasto fra bisogni diversi viene taciuta, rimanendo dunque sotterranea e ingestita.
I conflitti sommersi sono quelli che spesso producono più problemi. Infatti, se il conflitto rimane sommerso può accadere che alcune persone si coalizzino contro qualcuno o qualcosauna decisione presa, una persona con ruolo dirigenziale o un altro gruppo di individui nella collettività. Questa dinamica aumenta la disfunzionalità del conflitto sommerso, perché evitando il confronto diretto si impedisce ai bisogni reciproci di emergere e si limita la possibilità di iniziare una reale negoziazione verso accordi che soddisfino tutte le parti coinvolte.

Se i conflitti possono essere funzionali, allora la mancanza di conflitti è una red flag?

Come sostiene Patrick Lencioni nel suo libro The Five Dysfunctions of a Team (“Le cinque disfunzioni di una squadra”), in un ambiente caratterizzato da una buona base di fiducia e condivisione è naturale che nascano dei conflitti. Di solito, l’assenza di conflitto non è un buon segno: fa sorgere dubbi sulla percezione di quello stesso ambiente come sicuro da parte di chi lo abita. Inoltre, si è osservato nello studio delle organizzazioni e delle comunità che l’assenza di conflitto porta a un calo della responsabilità, dell’impegno e, nel tempo, anche del risultato. Questo perché evitando il conflitto viene minimizzata la portata evolutiva che questo può esprimere, come possibilità di aggiornamento continuo anche della modalità di collaborazione.

People opening to conflict

Allora bisogna ricercare il conflitto per perseguire uno sviluppo sano?

No, direi piuttosto che bisogna imparare a riconoscerlo quando emerge spontaneamente e a gestirlo costruttivamente. Infatti, evitare il conflitto o approcciarlo in modo esasperato non consente alle relazioni di ricreare quegli equilibri dinamici e adattivi che servono per mantenere una buona intesa collaborativa (oltre che affettiva). Quello che può accadere in questi casi è di percepire una relazione piatta, poco coinvolgente, caratterizzata da una collaborazione forzata o da una mancanza di collaborazione.

Come si riconosce un conflitto “buono” da uno “cattivo”?

Parlerei piuttosto di conflitti funzionali o disfunzionali.
Un conflitto è affrontato in modo funzionale quando tutte le persone interessate hanno la possibilità di manifestare i propri bisogni e le proprie emozioni, rimanendo in ascolto e in accoglienza dei bisogni e delle emozioni altrui. È in questo modo che può attivarsi un’intesa collaborativa funzionale alla ricerca di un accordo che soddisfi realmente le parti coinvolte (i cosiddetti accordi win-win). Per contro, un conflitto è affrontato in modo disfunzionale quando ci sono prevaricazione, passività, compiacimento o evitamento totale.

In che modo un conflitto può diventare un’occasione di crescita, invece che di rottura?

Qui entra in gioco l’importanza dell’approccio al conflitto, che alcuni chiamano “modello di gestione”. Personalmente, non amo parlare di gestione del conflitto, perché credo che, come per tutte le dinamiche relazionali, pensare di controllarne cause ed effetti attraverso una specifica modalità di gestione sia una prospettiva piuttosto illusoria.
Ciò detto, il conflitto diventa un incontro costruttivo quando è affrontato con quella che io chiamo postura assertiva e collaborativa: consiste nell’equilibrio fra comunicare il proprio bisogno e tenere in considerazione il bisogno dell’altra persona, senza farsi né troppo grandi né troppo piccoli. Quando si mantiene questa postura, sostare insieme nel conflitto diventa un’opportunità preziosa per costruire scenari nuovi e creativi per la propria relazione.

Quali sono i benefici concreti di un conflitto gestito bene, sia per le persone che per le organizzazioni?

Grazie al mio lavoro, mi capita di incontrare o studiare diverse situazioni di conflitti che generano benefici. Per fare solo alcuni esempi, ci sono coppie che escono da una crisi e co-creano una nuova motivazione per stare insieme; colleghi che si confrontano e capiscono come collaborare al meglio del proprio potenziale; amministrazioni che trovano equilibri nuovi e più virtuosi fra bisogni degli individui e bisogni della cosa pubblica. I benefici possono essere molti e molto diversi tra loro, ma nascono tutti dall’apertura alla ridefinizione dinamica e adattiva degli equilibri interni alle relazioni.

Come si costruiscono le condizioni per affrontare i conflitti in modo positivo?

La parola chiave qui è: FIDUCIA. Solo fidandoci e sentendoci di essere in uno spazio sicuro, non giudicante e democratico possiamo permettere al conflitto di manifestarsi nelle sue forme più funzionali. Per esperienza personale e professionale, le organizzazioni in cui i conflitti non emergono mai sono quelle in cui aleggia qualcosa di molto diverso, e cioè la PAURA. Quindi sfatiamo il mito: le relazioni sane non sono quelle senza conflitti ma, al contrario, quelle in cui i conflitti riescono a manifestarsi e ad essere gestiti con apertura e ascolto reciproco.

People resolving conflict

Esistono strumenti universali per affrontare i conflitti?

Proprio perché il conflitto è un fenomeno umano e mutevole, temo che non si possa parlare di strumenti universali. Sicuramente la comunicazione è la chiave di volta del conflitto: ci si fraintende per carenze di comunicazione efficace; ci si riallinea attraverso il dialogo (meglio se empatico e consapevole) e l’ascolto (meglio se focalizzato e attivo); si trovano accordi scambiandosi proposte, e si rinegoziano quegli accordi nel tempo attraverso il confronto e la condivisione verbale. Comunicazione, ascolto, capacità negoziale: è ciò che chiamo in sintesi il “conflict & communication mindset”.

Come comportarsi quando l’altra parte non vuole affrontare il conflitto in modo costruttivo?

È una situazione in cui si trovano molto spesso le persone per cui lavoro. Come diceva Marshall B. Rosenberg, l’ideatore della Comunicazione Nonviolenta, non possiamo aspettarci che le persone rispecchino il nostro approccio costruttivo. Ciò che possiamo fare è lavorare su noi stessi e trasformare la nostra reazione più istintiva al conflitto, spesso dettata da stili di conflitto ereditati dalla famiglia di origine e dal contesto di riferimento. Questo cambiamento di approccio è di per sé un seme: non dà subito fiori o frutti, ma è destinato a creare influenza nel nostro contesto futuro e in tutte le persone che ne faranno parte. E la nostra influenza positiva genera, potenzialmente, un effetto a cascata costruttivo.

Vuoi raccontare una storia di conflitto a lieto fine?

Definisci “lieto fine”! I conflitti costruttivi possono finire in un’infinità di modi diversi. Posso raccontare qui una storia positiva che è finita in un modo per nulla scontato.
Tempo fa lavoravo con due fratelli provenienti da una famiglia titolare di una nota impresa di artigianato. Il loro stile di conflitto era per lo più evitante: anziché parlare dei propri bisogni e ascoltarsi reciprocamente, giravano attorno all’argomento spinoso senza mai toccarlo davvero. Erano arrivati al punto di non riuscire più a parlare del tema difficile che li aveva fatti scontrare più di una volta, e cioè le sorti future dell’azienda familiare. Insieme a loro ho lavorato sul loro conflict mindset, e cioè sull’accogliere le loro opinioni divergenti, sull’ascolto reciproco e sulla capacità di condividere finalmente ciò che ognuno desiderava per il proprio futuro professionale. Alla fine, hanno scelto entrambi di non rilevare l’attività dei propri genitori ma di aprire due business distinti, ciascuno nella propria area di specializzazione. Il conflitto gestito in modo funzionale li ha avvicinati, e uniti hanno affrontato le reazioni (non esattamente entusiaste) della loro famiglia. Ora sono molto più affiatati di prima e vorrebbero addirittura intraprendere dei nuovi progetti lavorativi insieme, chissà… A prescindere da come andrà il futuro, se oggi ne possono parlare è solo perché sono riusciti a raccontarsi e ascoltarsi per superare quel faticoso conflitto iniziale.

La vita è un continuo intrecciarsi di cambiamenti e incertezze, e il conflitto è una delle forme in cui queste dinamiche si manifestano nelle nostre relazioni. Non c’è nulla di sbagliato in questo; anzi, è spesso il modo in cui bisogni e interessi differenti possono emergere. Respingere i conflitti non li elimina, ma li rende sommersi, aumentando il rischio che diventino disfunzionali e più faticosi di quanto potrebbero essere se affrontati.

L’invito è a imparare a riconoscere i conflitti quando emergono, accogliendoli con consapevolezza. Attraverso una comunicazione aperta e compassionevole, la gentilezza e l’ascolto attivo, possiamo trasformare questi momenti di tensione in opportunità di crescita, sia personale che collettiva. Ogni conflitto affrontato in modo costruttivo diventa una possibilità per costruire maggiore fiducia e connessione, mentre ogni conflitto negato crea distanza.

Ascolto, apertura e apprendimento condiviso non sono solo strumenti per migliorare le nostre relazioni: sono anche la base di ogni processo di cambiamento sistemico e del modo in cui, come Wisedāna Foundation, immaginiamo la filantropia. Coltivare questi atteggiamenti, dentro e fuori di noi, è il primo passo per generare trasformazioni positive durature e profonde.

 

 

Scritto da Marta Turchetta e Martina Righetti
Revisione editoriale di Marta Turchetta
Foto di Klaus Nielsen su Pexels